Vacui riformatori veri resistenti

Da Il Corriere della Sera del 27 ottobre
Di Angelo Panebianco

Sarebbe, in un certo senso, rassicurante attribuire le crescenti difficoltà parlamentari del governo Monti — dalla bocciatura dei tagli nella sanità allo stop sui tagli alle spese delle Regioni — solo alle fibrillazioni della campagna elettorale. Si potrebbe infatti dedurne che, se non fosse per la vicinanza delle elezioni, ci sarebbe più spazio per incidere sulla spesa e le sue disfunzioni. Ma non è così.
Perché non sono solo i partiti ma un intero, variegato ma potentissimo, «blocco politico- amministrativo-giudiziario » a mettersi di traverso non appena si cerca di incidere (anche solo blandamente, come ha fatto fin qui, per lo più, il governo Monti) i bubboni del nostro sistema pubblico. Si pensi alle recenti sentenze della Corte costituzionale: dalla bocciatura dei tagli agli stipendi di magistrati e alti funzionari fino al «no» a un modesto provvedimento che mirava a ridurre i tempi della giustizia civile. Il premier Monti ha detto che l’Italia non ha bisogno di moderazione ma di «riforme radicali». Se non che, quel blocco politico- amministrativo-giudiziario di cui sopra è in grado di sabotare (con i più vari strumenti) persino le riforme blande. Figurarsi che cosa riuscirebbe a fare se qualche aspirante suicida politico si mettesse davvero in testa di fare tutte le «riforme radicali» che sarebbero necessarie: ne sa qualcosa il ministro Fornero che di riforme radicali, sfruttando la condizione di emergenza in cui si trovava l’Italia, è riuscita a farne almeno una, quella delle pensioni, e ha potuto constatare di persona quanto potente sia stato, e sia tuttora, il contrattacco. Per riforme radicali si devono intendere, logicamente, quelle capaci di modificare in profondità lo status quo. In Italia, significherebbe incidere sul sistema pubblico, ridurne il peso sulla società e, insieme, costringerlo a una maggiore efficienza, passare da un sistema pubblico grasso e inefficiente a uno magro e efficiente. Chi può avere la forza per fare una rivoluzione di questa portata? La resistenza degli interessi consolidati è tale che fare quella rivoluzione richiederebbe un «centro» (un governo), non forte ma fortissimo, così forte da piegare e sconfiggere gli innumerevoli poteri di veto che stanno a difesa di quegli interessi consolidati. Si consideri che i tanti cani da guardia che proteggono il sistema pubblico così come è vivono, per lo più, in un mondo tutto loro. Sono autarchici, se non autistici. Nulla può a loro importare degli stringenti vincoli europei o del fatto che, Europa o non Europa, se non si abbassano le tasse tagliando la spesa pubblica, non c’è possibilità di rilanciare la crescita, non c’è altro destino possibile se non il declino e l’impoverimento collettivo. La sola cosa che conta per quei cani da guardia è fare blocco intorno a supposti diritti acquisiti e a interessi consolidati, della più varia e diversa natura, ma tutti alimentati e garantiti attraverso la spesa pubblica. Non in tutte le democrazie ci sono poteri di veto così forti, ramificati e diffusi. Scontiamo in tutta la sua drammatica ampiezza il danno dovuto a un grande fallimento. Il fallimento di quella riforma costituzionale— di cui si parla inutilmente dalla fine degli anni Settanta dello scorso secolo — che, dando più forza istituzionale al governo, avrebbe dovuto, e potuto, spuntare le unghie dei troppi cani da guardia.

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