Usa: domani si vota. Ma siamo sicuri che quella Americana sia una democrazia?


Da santalmassischienadritta.it di Maria Grazia ENARDU
Questa è l’ennesima elezione americana che seguo, con partecipazione. Credo di aver cominciato con Kennedy-Nixon del 1960, e mi ricordo bene anche la battaglia dei diritti civili degli anni ’60, per la registrazione degli elettori neri virtualmente esclusi dalle urne.
 
Nel 2000 mi sono fatta una cultura, grazie ai giornali americani disponibili su internet, sul quasi pari di Gore e Bush in Florida: schede a farfalla costruite ad arte per disperdere voti,  schede contestate con talloncino pendulo o addirittura incinto (sic). Un labirinto fatto per perdere diritti.
 
Ogni volta, mi ricordo che per anni lo stato italiano mi ha inseguito fin sotto la porta di casa, per farmi votare. Arrivavano i vigili urbani con i certificati elettorali, li consegnavano inevitabilmente alla vecchietta del quarto piano che implacabile li metteva sotto le porte e poi ti chiedeva se l’avevi visto. Se non andavo a votare, e ci andavo, voleva proprio dire che era mia scelta, non impossibilità costruita. Poi è arrivata la tessera elettorale, l’ho persa una volta sola e me l’hanno rifatta in pochi minuti.
 
Ma negli Stati Uniti i famosi padri fondatori non hanno solo costruito un Collegio Elettorale che premia gli stati più che gli elettori – si può avere più voti e perdere, come successe a Gore. Ma hanno costruito una repubblica che non aveva uguaglianza razziale, c’erano gli stati schiavisti dove i neri schiavi contavano per l’attribuzione dei seggi del Collegio ma ovviamente non votavano. Questo impianto è rimasto.
 
E dopo Lincoln, la Guerra Civile e tutto il resto è rimasta l’abitudine a non far votare gli ex-schiavi. Con vari mezzi.
 
Il più banale e paradossale è l’assenza delle carte di identità, viste come strumento di controllo dello stato e diminuzione delle libertà individuali. Guardatela, la vostra carta, vi  pare strumento di uno stato di polizia? ma serve, in banca e al seggio, serve eccome, anzi mi libera da mille pensieri, non  ho la patente solo un passaporto ben chiuso in un cassetto.
 
Ma moltissimi americani non hanno un passaporto, non viaggiano e non gli serve, costi a parte. Magari sono davvero poveri e non hanno nemmeno la patente, che potrebbe servire come documento. Secondo varie e un pochino strampalate leggi potrebbero dimostrare la propria identità in vari modi, lettere indirizzate, carte di credito, ma non sempre stati e contee varie riconoscono questi mezzi,  se non gli piace la connotazione etnica dell’elettore da cancellare.
 
E non è finita: periodicamente il New York Times si dispera per l’altissimo numero di elettori che hanno perso il diritto di votare per condanne penali. E non solo i detenuti in carcere ma chiunque abbia avuto una condanna anche piccola e magari non detentiva, esclusi praticamente a vita. Anche perché spesso sono neri, o cose del genere. Sono quasi 6 milioni di persone, e in alcuni stati, compresa la celeberrima Florida, i non aventi diritto sono il 7%, e metà di loro è tornato libero cittadino. Libero ma non votante.
 
Mentre alle ultime elezioni regionali in Sicilia ha fatto testo quel carcere dove pochi hanno votato,  la mafia questa volta è stata a guardare. Ma il seggio nel carcere c’era, ed era per i detenuti. Questa si chiama civiltà, democrazia, stai in galera ma rimani un cittadino, salvo i rari casi di perdita dei diritti politici.
 
E le file, poi. Negli Stati Uniti sono già cominciate in anticipo, in diversi stati si può votare in anticipo e le file sono già lunghe. Lunga fila vuol anche dire gente che si stufa o che patisce letteralmente per poter votare.
Non ricordo file impressionanti ad alcuno dei miei seggi, sia perché di solito vado a votare in orari asociali sia perché quando c’è la fila ne parlano i giornali, vuol dire che ci siamo veramente mossi tutti, e magari alla stessa ora di domenica mattina o domenica sera.
 
Ma la lunga fila americana è diversa, si perde tempo a verificare identità su pezzi di carta varia, a discutere se quella persona deve votare qui o lì e cose del genere.  Sono file che di solito si vedono in paesi come l’Iraq o altri arrivati in qualche modo alla democrazia o quel che è.
 
In circostanze del genere non stupisce, se non per la sua franchezza, quanto ha detto pochi giorni fa il governatore del Texas. Saputo che c’erano in giro monitor dell’OSCE ha minacciato di metterli in galera. Roba da fare arrossire un talebano, ma forse un talebano spara prima, come un texano dei vecchi tempi.
 
E ora ditemi se un paese che non mette un tappetino rosso per facilitare l’esercizio del diritto di voto è davvero una democrazia. Non cambieranno tanto presto, troppi interessi in ballo e in conflitto. Mi piacerebbe sapere cosa pensa di questo un professore di diritto costituzionale americano che spera di tornare alla Casa Bianca,  un parere sincero, accademico.

Per tornare alla domanda nel titolo: sono sicura che no.

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